Abbecedario BI: parte prima, introduzione

La prima edizione del libro “The Data Warehouse Lifecycle Toolkit” di R. Kimball è stata pubblicata nel 1998. La prima edizione del libro “Data warehouse: teoria e pratica della progettazione” di M. Golfarelli e S. Rizzi è stata pubblicata nel 2002. Sono dunque molti anni (moltissimi, per i tempi compressi dell’informatica) che la teoria della progettazione di data warehouse è stata fondata su solide basi.

Eppure, se è lecito un riassunto “in timelapse” degli ultimi quindici anni visti da una prospettiva operativa, l’adozione di sistemi di Business Intelligence basati su data warehouse da parte delle aziende è avvenuta e avviene con grande ritardo.

Dapprima i data warehouse parevano essere nel sentire comune appannaggio di aziende iperuraniche o comunque lontane o comunque libresche.

Solo molto lentamente, ed in Italia da non più di una decina d’anni, le proposte di data warehouse hanno trovato ascolto nelle aziende e sono arrivate le prime applicazioni, anche se molto spesso si è trattato di “data warehouse” di nome, ma non di sostanza tecnica, complice una certa confusione sulla sostanza.

È così arrivato il tempo dei grandi prodotti “di Business Intelligence”, legati a grandi produttori ed a grandi costi di licenze. Le aziende e i loro decisori hanno comprato i grandi prodotti con la sicurezza di “avere scelto il meglio”, ponendo così le loro scelte al riparo da critiche.

Purtroppo, o fortunatamente, comprare gli strumenti migliori non è garanzia di ottenere un buon progetto, così come comprare i pennelli ed i colori più pregiati non garantisce un bel quadro. A maggior ragione se si confondono gli strumenti con i risultati. Il progettista doveva, come deve, spiegare, e giustificare, che un progetto parte dagli strumenti, ma non si esaurisce con essi.

Ora sono molte le aziende che si sono dotate di sistemi di Business Intelligence, anche se la maggior parte delle applicazioni aziendali si limita all’analisi dei fenomeni economico-contabili e commerciali, e poche o pochissime sono realizzate “a regola d’arte”.

Oggi poi, paradossalmente, poiché anche l’informatica vive di marketing e di moda, non si parla neanche più di Business Intelligence: qualsiasi attività o sistema che abbia a che fare con l’analisi dei dati viene etichettata come “Big Data”.

Molto lavoro resta dunque da realizzare:

  • aumentare la qualità della progettazione dei sistemi di Business Intelligence
  • estendere il dominio applicativo della Business Intelligence oltre i ristretti confini dell’analisi economica, perché un’azienda è molto più del suo bilancio e molti indicatori concorrono a misurarne lo stato (così come forse lo stato di un Paese non si misura solo dal suo PIL)
  • diffondere una “cultura del dato”, antidoto all’approssimazione
  • parlare con onestà di Big Data.

Per ragionarne e per lavorare assieme occorre condividere almeno il “vocabolario minimo”, altrimenti troppe riunioni sull’analisi dei dati aziendali sembrano il consesso dei dottori al capezzale di Pinocchio.

A cimentarsi con questo vocabolario sarà la prossima parte di questa pagina di diario.